Opera dei pupi e Bunraku. Due storie parallele

di Tiziano Iannello
Opera dei pupi e bunraku

Opera dei pupi e Bunraku. Due storie parallele che raccontano un’unica passione: l’arte della manipolazione. Stiamo parlando di un rapporto diretto che intercorre tra manovratore e marionetta, pratica che se coltivata può trasformare questo oggetto inanimato in un personaggio vivo e vegeto che parla e si muove intorno a noi.

L’evento, svoltosi il 27 giugno presso il Centro Umberto Eco, è stato voluto e partecipato dalla Cattedra sulla Bellezza Mokichi Okada, dal Museo Antonio Pasqualino di Palermo e dal Centro TraMe. Francesco Mazzucchelli e Francesco Mangiapane hanno introdotto l’incontro, inserendolo nella cornice di “Ereditare 2. Semiotica della trasmissione”.

Con grande chiarezza espositiva Matteo Casari e Rosario Perricone ci hanno trasportati in due mondi assai diversi, ma per certi versi simili, rispettivamente il bunraku e l’opera dei pupi.

Il primo, il quale rientra tra le quattro tipologie di teatro giapponese classico, risulta senz’altro il più noto e caratteristico. Il bunraku è un’arte performativa che nasce e si consolida tra il XVII e il XVIII secolo, ma la cui fama perdura, fino ad arrivare ai giorni nostri. È infatti tuttora possibile rivivere i racconti di Chikamatsu Monzaemon e di altri noti compositori, specialmente presso il Teatro nazionale Bunraku di Osaka.

Le marionette che animano questo teatro di figura sono il frutto del duro lavoro di tre manovratori: l’ashizukai, ovvero l’operatore che muove i piedi, l’hidarizukai, colui che manipola il braccio sinistro, e l’omozukai, l’artista più apprezzato a cui è dovuto il movimento del braccio destro e della testa della marionetta. La tradizione richiede che l’operatore cominci dal primo ruolo, consolidando la sua maestria per dieci anni prima di poter passare all’incarico successivo; egli proseguirà in questo modo, fino a diventare omozukai, qualifica che gli permette inoltre di animare a volto scoperto. Mentre il manovratore più esperto occulta soltanto il suo corpo, ai suoi aiutanti è richiesto di oscurare anche il viso mediante appositi indumenti di colore nero, al fine di scomparire dinnanzi alla vista degli spettatori. Ad accompagnare i movimenti dei burattini, due importantissime figure si trovano nella fascia laterale del palco: il declamatore, o tayu, e il suonatore di shamisen.

L’opera dei pupi si sviluppa successivamente. Nasce in Sicilia a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo e si concentra in un due aree ben delineate, quella palermitana e quella catanese. Certamente vi sono grandi analogie tra le due esperienze, ma anche differenze sostanziali. Ad esempio, a Palermo il puparo muove e dà la voce al suo pupo, mentre nella zona orientale compare anche un’altra figura, “u parlatore”. Inoltre, se nell’area occidentale della Sicilia la marionetta è manipolata lateralmente con aste anche di 4-5 metri, a Catania il pupo è manovrato dall’alto come le marionette.

Da subito questo spettacolo si contraddistingue per il suo carattere popolare: il puparo inizialmente non si trova su un palco, ma in mezzo al pubblico che conosce e partecipa della narrazione. La memoria è un aspetto distintivo di quest’arte performativa: gli artisti dispongono soltanto di un canovaccio. Pertanto, essi ricordano le imprese dei cavalieri e dei paladini di Francia. D’altro canto, se un puparo sbaglia o scorda un passaggio, gli spettatori intervengono puntualmente. La gente conosce questi cicli cavallereschi; basta infatti un cartellone pubblicitario con qualche immagine raffigurata per non lasciare alcun dubbio circa lo spettacolo che sarà messo in scena.

Perricone ha insistito proprio sul lato esperienziale e quotidiano dell’opera dei pupi. Un manovratore o aspirante tale è prima di tutto parte di un pubblico. Ascolta, partecipa e impara quotidianamente. Poi prova, mette in scena e coltiva un rapporto diretto e quotidiano con i suoi pupi; non si tratta di oggetti inanimati da appendere al muro una volta terminato lo spettacolo. L’artista li ha spesso con sé, li muove pure fuori dal palcoscenico, ci parla, li rende vivi.

In conclusione, un punto focale che è emerso tra bunraku e opera dei pupi è senz’altro l’equilibrio che intercorre tra natura e cultura, tra emozione e tecnica. Qualità che i manipolatori delle marionette coltivano per anni e che condividono con i loro concittadini, coinvolgendoli in un clima di festa animato da profondi aspetti rituali.


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